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La ricostruzione sulla Morte

Andranno

a ricostruire sopra un genocidio

esaltati dal denaro e dalla vittoria

dimèntichi di chi visse quella terra

antica di viti e di tramonti

di destino sepolto da chi

si credette ‘eletto’ al possesso

lasciato impunito.

Tu dimentichi?

 

Andranno

con cemento e ruspe e progetti di lusso

per alberghi e ori ai balconi

rivolti al mare di Gaza

ciechi ancora nel capire

come ogni onda abbia già voltato le spalle

al profitto in baldoria e abiti profumati d'astuzia.

Tu dimentichi?

 

Andranno

avide le ruspe, i cementi, gli architetti

a scavare nuove fondamenta

e le gru inizieranno a tremare

cos'è, forse un terremoto sotterraneo?

Cos'è, questo moto che ferma i lavori?

questo incomprensibile lamento roco roco.

Tu dimentichi?

 

Andranno

con groppo in gola di paura

nonostante l’eccidio ormai concluso

ormai spinto via tra bombe irrispettose

accettate di diritto, le bombe ‘elette’

direttamente da Dio, e fu lo sbaglio.

La mal interpretazione. La superbia.

Tu dimentichi?

 

Andranno

tra un vento gelido azzurrato

e polveri in profumo di arance amare

nel buio perpetuo della nuova ricostruzione

e nessuna luce indicherà il cammino.

Che succede? Si domanderanno

con la vittoria divorata dal panico.

Esploderanno incendi dalle voragini del suolo

e gli occhi incominceranno a intravedere.

Tu dimentichi?

 

Andranno

ebbri di vino da coraggio

un po’ ridendo un po’ perdendo feci ‘elette’

toccandosi i volti a vicenda, da spettri spersi in se stessi,

chiamando Padre mio con voci dannate, ossa glabre,

labbra risucchiate dalle gole.

Padre mio.

Ahi sbagliammo

ahi sbagliammo?

Tu dimentichi?

 

Andranno

e cadranno rose rosse da un tuono

spinando occhi attoniti strappati ai volti ‘eletti’

immemori di celebrati fili spinati e treni verso il gas,

le memorie quantificate in pasciuta superbia

adesso e adesso da vittime in carnefici

incominciano a intuire il danno? No, non basta.

Tu dimentichi?

 

Andranno

inciampando in vertebre di vecchi sotto macerie,

vecchi, abbandonati se inabili all’esodo. Non ci fu neppure

un tempo di saluto. Baciare loro le mani, ringraziare:

i costruttori dei Giardini di Gaza.

Inciamperanno, i costruttori

sui pesci alati fuggiti al mare, volati a portare aiuto

invano e ormai fossili. Li raccoglierete per collezione di memoria?

Tu dimentichi?

 

Andranno

cadendo sugli occhi rimasti vivi nei crani dei più piccoli

amputati gli arti e la vita intera

coi soli vermi a cantargli le ninne nanna

a baciar loro le ciglia coperte di pianto

e il pianto mai tacerà quanto si è capito

e quanto mai si capirà.

L’ odore della morte è dolce da far impazzire chiunque.

Nessuno riuscirà più a ritrovare il senno, la vera follia

ormai si srotola in ogni angolo del mondo.

Soprattutto quando tra le mani, voi,

vi ritroverete a raccogliere affamati dentini da latte.

Tu dimentichi?

 

Testo letto da una parte del Gruppo di scrittura e propedeutica alla lettura orale. Centro di Salute Mentale - Oristano nella Giornata dedicata alle follie taciute e a quelle no.

 Palestinesi sulle macerie di Gaza, Fonte Unicef

 

Chi vive ancora?

‘Odissea’ è un titolo che ha assunto nei secoli un valore metaforico. Almeno a partire da Dante, ‘odissea’ significa viaggio di conoscenza, esperienza dolorosa ma necessaria per ritornare alla terra dove salde restano le radici; dunque, un itinerario iniziatico, un egira, verso la maturità e la consapevolezza di sé.

Dopo la prima e la seconda guerra mondiale, senza tradire l’archetipo mitico, ‘odissea’ ha cominciato a indicare l’esperienza traumatica post-bellica e il ritorno di chi, mutilato nel corpo e nell’anima, trova il proprio mondo radicalmente mutato o distrutto (questo specie nella letteratura tedesca). Negli ultimi vent’anni ‘odissea’ è progressivamente diventato un termine monco, perché resta sì il viaggio, periglioso quanto mai, ma non c’è ritorno a casa. Itaca non esiste più. Perciò, ad esempio, il protagonista del romanzo Ulisse da Bagdad (2008) dello scrittore e drammaturgo franco-belga Éric-Emmanuel Schmitt, al contrario dell’eroe omerico di cui porta il nome, non sa dove tornare: «L’unico vocabolo che ormai mi definisce - afferma - è clandestino. (…) Non appartengo ad alcun paese, né a quello a cui sono scappato, né a quello che voglio raggiungere, e ancora meno a quelli che sto attraversando. Clandestino. Solo clandestino. Benvenuto in nessun luogo. Straniero dappertutto.»   

 ‘Odissea’ vuol dire oggi, dunque, lo sbandamento per le vie del mondo e del mare di milioni di fuggitivi, come frammenti di mondi dislocati, quali rottami vaganti da luoghi per i quali non si prova alcuna nostalgia, alcuna Heimweh, lo struggente ‘desiderio di casa’: questi esseri umani vengono dalla guerra, dalla prigione, dalla tortura, nel migliore dei casi dalla fame,miseria, malattia. Questi uomini non posseggono più una Itaca. Sono dei vinti. 

Odissea, al singolare, mette l’accento sul singolo, sull’individuo che come Odisseo sfida la natura e gli dei e riesce, nonostante tutte le sofferenze, a tornare a casa e a ritrovarvi un suo ruolo, ma a costo di uno spargimento di sangue quasi fratricida. Odisseo non è né esempio né modello di ritorno 'a casa': la sua storia gronda di sangue e di conquista, il suo ritorno diventa una spietata lotta per la ripresa del potere da cui era stato troppo a lungo lontano. Odisseo non può e non deve rappresentarci. Odisseo è un uomo solo. 

Oggi gli 'Odissei' sono invece milioni; interi popoli, smembrati, si muovono; innumerevoli sono coloro che fuggono dalle loro case e dalla loro terra, individui che nulla hanno di eroico tranne spesso la loro inconsapevolezza, la cui esperienza non segna alcun progresso di conoscenza, ma solo di dolore, qualche volta di speranza.

Come raccontare queste infinite odissee? Quanti racconti bisognerebbe scrivere, quanti teatri bisognerebbe inventare per dare a ciascun destino sconvolto l’ascolto che meriterebbe?

Se lo chiedeva più di vent'anni fa la scrittrice e intellettuale francese Hélène Cixous nel breve, intenso, documentato libretto che accompagna il film tratto dallo strepitoso spettacolo teatrale Le dernier Caravansérail, sotto titolo Odyssées, del Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine. Come si può rappresentare in teatro il destino molteplice dei profughi dai teatri di guerra, Afganistan, Iran, Irak, Kurdistan, Serbia? (Lo spettacolo è del 2003 e i flussi dall’Africa e Siria non erano ancora così ingenti). Ogni episodio dello spettacolo racconta una vicenda individuale, dal paese d’origine ai viaggi obbligati attraverso confini vietati: alcuni di questi destini si intrecciano casualmente nel famigerato centro di raccolta francese di Sangatte, oppure sotto il  tunnel della Manica, o nelle prigioni australiane, ma a tenerli insieme, invero, è un burattinaio visibile: l’autrice e regista, che raccoglie le testimonianze con una minuziosa ricerca sul campo e le tiene insieme nella messa in scena. Si tratta dunque di una ‘scrittura collettiva’, come in altre produzioni del Théâtre du Soleil : la coralità esprime le dimensioni della catastrofe senza ledere la dignità individuale. La Mnouchkine mette in scena tante odissee, cioè le vicende di poche persone, con un nome, una famiglia, un luogo, una cultura, una tradizione. Persone, non numeri: bisogna evitare l’ambiguità delle cifre, come in altri momenti della storia, ricordare il nome, quel nome di cui gli ebrei furono privati nei campi di sterminio. Ricordare che si tratta di persone: questo vuole un certo tipo di arte e di letteratura che devo definire politica, l’arte che vuole caparbiamente dire i nomi,  gridarli. 

Savina Dolores Massa, scrittrice sarda dal respiro universale, che esordì nel 2008 con un romanzo corale, Undici, che è a sua volta un’ ‘odissea’,  è l’autrice della poesia che abbiamo pubblicato e che narra di un ritorno impossibile dei palestinesi della striscia di Gaza alle loro case, alla città che non c’è più, un ritorno alla vita il cui filo si è interrotto. I Palestinesi sono ora obbligati ad una rinnovata odissea in senso contrario agli ordini di evacuazione: nel frattempo, la loro casa è diventata un cumulo di macerie. Non vi porta nessuna strada, non fioriscono più i giardini, c'è solo un tappeto di cenere e polvere, polvere spessa, polvere che brucia il respiro, polvere che copre i ricordi, le vite perse, ogni piccola cosa. Non ci sono più quartieri, rumori, profumi di spezie e di pane. Non ci sono giochi di bambini. C'è solo il merletto scomposto dei profili resistenti di pericolanti costruzioni. Si può immaginare il silenzio? Grigio di rovine, di esplosioni e di pianto, nonostante il vicino azzurro burrascoso del mare, nonostante la luce del cielo. E ancora polvere.

Itaca, la loro Itaca, è scomparsa.  

L’odissea dei gazawi è senza Itaca, perché della loro città è stata fatta terra bruciata. Come nel film documentario Chi vive ancora? (Qui vit encore?/Who is still alive?) del regista Nicolas Wadimoff presentato alla Mostra del Cinema di Venezia,  i palestinesi sopravvissuti possono raccontare la loro storia segnando in una stanza chiusa, con un gesso, la mappa di quello che era il loro quartiere, di quelle che erano le mura della loro casa, di quello che era il loro mondo. La mappa della memoria.  «Poiché Gaza non c’è più, l’abbiamo ricostruita attraverso il ricordo della vita quotidiana», ha spiegato il regista. E a ricordarci il senso profondo di tutto è Ghada Al Masri, 16 anni: «Dietro ogni numero c’è una persona, una vita, un sogno, una voce».

La poesia di Savina Dolores Massa ci dice che dietro le macerie che cominciamo a vedere nei nostri schermi ci sono persone e c’è un mondo che è scomparso, che non andrebbe ‘ricostruito’ con criteri stabiliti da altri se non dagli stessi palestinesi che ritornano. Ritornano dove? 

Ma la ricostruzione è possibile? Sino a che punto si può offendere la memoria, ricostruendo ciò che si è perso per sempre? Sino a che punto la si può illudere, cancellando la storia?

La poesia ci dice soprattutto che c’è poco da esultare sulla distruzione, anche se finalmente le bombe tacciono e si può risentire la risacca e guardare al cielo splendido senza paura. I costruttori e i ricostruttori della pace stamattina 11 ottobre sono stati definiti dal radiogiornale di Radio 3  «concreti uomini d’affari»; quale affare si può concludere sulla stratificazione del dolore?

La poesia invita tutti, davvero tutti, a non dimenticare. (S.F.)

Uno dei rifugiati palestinesi protagonisti del documentario "Qui vit encore?" del regista Nicolas Wadimof

 Le immagini sono tratte dal web