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[Nell’aprile del 2005 Walter Burkert, il grande storico della religione greca, per la prima volta si trovava in Sardegna e visitava in mia compagnia il nuraghe di Sant’Antine a Torralba, a trenta chilometri da Sassari.

Aveva parlato in un’aula gremita da centinaia studenti di Una teogonia di “Orfeo” ritrovata. Mitologia internazionale nella Grecia arcaica, su un testo enigmatico e difficile, una delle scoperte papiracee più significative del XX secolo, il Papiro di Derveni, al centro di accese discussioni interpretative, su cui Burkert aveva accettato di anticiparci la sua autorevolissima opinione. Burkert era un nome fondamentale della mia formazione, ma non lo avevo mai incontrato prima di allora: come capita, per me era solo l'autore dei suoi libri. Uno dei miei primi lavori pubblicati era stata la postilla bibliografica al suo libro laterziano del 1989 Antichi culti misterici, apparsa in "Belfagor", di cui ero troppo giovane redattrice, nel primo fascicolo del 1990: due paginette per scrivere le quali avevo impiegato mesi di letture. Mesi per scrivere queste frasi di sintesi: "la generale e discussa ricostruzione storico religiosa di Burkert approda alla conclusione che all'esperienza dell'uccidere cacciando, propria dell'uomo paleolitico, risalirebbe la pratica sacrificale e tutto il rito greco, misteri compresi. Le iniziazioni partecipano, a vedere di Burkert, dell'universale ritmo per antitesi «lutto e gioia, ricerca e ritrovamento, digiuno e banchetto, uccidere e mangiare, morte e vita».

Ma torniamo a quella lontana primavera in Sardegna, e all'uomo Walter Burkert che finalmente incontravo.

C’era un ‘importante’ consiglio di facoltà, quella mattina, i colleghi si dileguarono, ma questo non dispiacque al poco cerimonioso professore nordico, un po’ meravigliato del fatto stesso che a Sassari ci fosse un’Università. Dopo la lezione, Burkert non volle andare al ristorante, così ci mettemmo subito in macchina, poiché ero ansiosa di mostrargli i resti archeologici della zona. Il nuraghe di Sant’Antine impressiona nella sua austera e intoccata imponenza, e supponevo che sarebbe stato interessante visitarlo per Burkert, che tanto aveva viaggiato per il mondo mediterraneo con inesausta curiosità. L’anziano professore, però, per quasi tutto il tempo della visita guardò in alto, non il monumento ma il cielo instabile della primavera sarda; poi fissava il prato erboso scosso dal vento, inseguendo chissà quali pensieri.

Avrei voluto che mi dicesse una sola parola su quella straordinaria testimonianza archeologica, una parola soltanto, una comparazione, ad esempio, o una suggestione: camminò invece in silenzio nello sterrato, entrò qualche attimo nei corridoi bui del nuraghe, non volle salire sulla torre, come impaurito. Il passo, certo, non era più quello della giovinezza; si sentiva il belare delle pecore, non tanto lontano, che sembrava interessarlo più delle pietre scure della ‘reggia’ nuragica.

Sempre in silenzio, tornammo in macchina, cambiò argomento, raccontò della commissione che aveva valutato i professori dell’ex Germania comunista, la DDR, di cui aveva fatto parte, delle molte conoscenze in comune, dei suoi allievi da cui io avevo tanto imparato, specie Fritz Graf che mi aveva accolto ed ospitato nel seminario di filologia classica di Basilea, e Wolfgang Rösler, conosciuto a Costanza e professore di letteratura greca a Berlino, che l’anno dopo sarebbe venuto anche lui in Sardegna per una lezione sul più antico libro edito dall’autore stesso. Allora letteratura greca a Sassari contava centinaia di studenti; e non ho remore a dire che l’insegnamento teneva testa a tutti gli standard internazionali ed era internazionale nel senso proprio, perché tutti i colleghi e gli amici d'oltralpe vennero da noi per lezioni e seminari. Altri tempi, ma soprattutto altre speranze e altri progetti, più produttivi di quelli di oggi e non solo dal punto di vista culturale. Forse torneranno con la next generation.

Burkert, quel giorno, parlò molto, contraddicendo la sua proverbiale laconicità, dei suoi anni di insegnamento; si infervorò un po' difendendo l'idea dell’importanza dello studio della lingua greca, espresse un grande affetto per il "geniale" Christoph Riedweg che aveva sottratto alla musica per avviarlo alla carriera universitaria, suo successore sulla cattedra di Zurigo; ma non volle darmi nemmeno un’impressione sul nuraghe e su altri monumenti preistorici che riuscimmo a vedere, nonostante io con qualche timidezza cercassi di tornare sull’argomento.

Ad Alghero, il cielo minacciava pioggia e il mare non sembrava colore del vino come quello di Omero; eppure sui bastioni, guardando il profilo imponente di Capocaccia, ebbe finalmente un’espressione di meraviglia e una parola per tanta bellezza. Poi un’ombra di malinconia, rievocando la moglie. Non volle che lo accompagnassi all’aeroporto, prese il bus di linea il giorno dopo, da solo, col suo zaino, la camicia a quadroni, la giacca di velluto, da buon escursionista svizzero.

Il pensiero è andato a Walter Burkert infinite volte, soprattutto da quando abbiamo dato inizio al progetto ‘Visioni del tragico’. Manca infatti uno studio che delinei l’importanza delle riflessioni storico religiose di Burkert per la tragedia contemporanea e per le messe in scena e i ripensamenti della tragedia greca nel teatro contemporaneo. Troppo filologica, tagliente, erudita l’argomentazione di Burkert, troppo esigente, anche di tempo per la riflessione, forse. In Italia, poi, i suoi libri principali non sono ristampati, sebbene non abbiano perso d’attualità.  

Il suo libro più importante e conosciuto, Homo necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, tradotto in italiano nel 1981, nove anni dopo l'edizione originale, propone una teoria del sacrificio e suggerisce, tra l’altro, una discussa linea interpretativa del fatto tragico greco che non è solo di Burkert: accanto a lui, bisogna almeno ricordare René Girard e in Italia Giuseppe Fornari; ma qui non si può che essere cursori.

Nel 2017, Carmelo Rifici nella sua messinscena dell’Ifigenia in Aulide al Piccolo Teatro di Milano ha posto questa linea interpretativa sacrificale al centro stesso dell’atto teatrale, e si tratta solo di un prodotto di quella che chiamerei la linea dionisiaca di ripensamento della tragedia greca nelle performances  reperformances contemporanee. In questa linea, il confronto con la tragedia greca si svolge sul filo della rappresentazione della violenza e della violenza (anche verbale) della rappresentazione, come si dice in un contributo seminale di Patrick Primavesi che traduciamo qui. Per questa sua importanza per il teatro tragico contemporaneo, non ancora adeguatamente valorizzata, pubblichiamo, come materiali, due profili di Walter Burkert che mi sembrano fondamentali per la conoscenza di questo studioso per i nostri lettori 

Quello che segue è un profilo sintetico redatto dal già citato Christoph Riedweg, allievo di Burkert, professore di Letteratura greca a Zurigo e a lungo direttore dell’ Istituto di cultura svizzera a Roma, uno dei più poliedrici grecisti contemporanei, che ringraziamo per aver messo a disposizione il materiale che noi abbiamo adattato alle esigenze del blog. Alcuni stralci di quel che segue sono presenti nell’articolo Walter Burkert: l’uomo, lo studioso, il maestro, apparso in Akousmata. Atti della giornata in onore di Walter Burkert. Roma 9 giugno 2016, a cura di Lorenzo Perilli, in Technai. An International journal for Ancient Science and technology , 7, 2016. Si rinvia inoltre alla pagina dell’Università di Zurigo per altri profili e commemorazioni di Burkert, qui.   (Sotera Fornaro)]

Walter Burkert (1931-2015) è stato impareggiabile: come studio­so, come docente, come uomo.

Filologo ed erudito che ha lasciato il segno sul suo secolo, Burkert sovra­stava la maggior parte dei suoi contemporanei di una spanna, e non solo fisicamente. Sapeva pensare in modo fulmineo, pari alla rapidità del suo parlare in pubblico: non di rado iniziava le lezioni del giovedì e del vener­dì mattina quand’era ancora sulla porta dell’aula e pronunciava le ultime parole solo uscendo, dopo che la campanella aveva suonato. I canonici 45 minuti sembravano addirittura troppo brevi per trasmettere il suo magni­fico sapere e la ricchezza delle prospettive che gli si aprivano dinanzi. Era una sfida, soprattutto per studenti e studentesse alle prime armi, che tut­tavia si rendevano conto ben presto che qui avrebbero potuto vivere un’e­sperienza di studi di greco di primissima classe e di rango internazionale.

Il fulmineo stile espositivo è soltanto uno degli aspetti: giacché pecu­liare di Walter Burkert era anche quella che la giurista e storica del diritto Marie-Theres Fögen (1946- 2008), nella brillante retorica della Laudatio pronunciata in occasione del conferimento del Sigmund-Freud-Preis, chiamò la laconicità di Burkert.

Laconicamente egli sapeva non soltanto cogliere in modo pregnante l’es­senziale di rituali e miti – Fögen adduce come esempio la frase «c’è una ‘umanità’ che si mantiene proprio nell’uccidere, macellare e mangiare»: anche nei seminari Fögen ricorda di aver fatto esperienza di un Burkert non meno laconico, «chino su un testo con lacune e corruttele, in silen­zio, mentre altri tiravano a indovinare ad alta voce. Poi d’un tratto il suo sobrio intervento: embaino invece di emballo. Il testo è salvo, e il salvatore si guarda intorno, muto, con l’espressione tra il furbo e il divertito tipica del bambino che ha ritrovato il mattoncino di Lego che credeva perduto, e di cui v’era urgente bisogno».

Una descrizione davvero calzante. Se da un lato era infatti caratteristi­co di Burkert il fare a meno di ogni parola superflua, così come il dedi­care la massima concentrazione a quel che gli appariva essenziale (con consapevole rimozione di ogni fattore di disturbo), dall’altro però lo contraddistingueva una capacità di entusiasmarsi quasi infantile, unita a una passione irrefrenabile per le discussioni specialistiche, nelle quali era costantemente teso ad individuare il dettaglio particolare, a far emergere da testi e documenti già noti nuove sfaccettature, a evidenziare paralle­li che giungessero fino alla più recente contemporaneità.

copertina libro

 

Di quando in quando era sì laconico; ma a questo genere di conversazioni era sempre pronto e disponibile, senza fare distinzioni, rivolgendo il medesimo fare amichevole, aperto e comunicativo sia agli studenti che ai colleghi di rango. Era una miniera di conoscenze precise e dettagliate, e con una generosità rara se non unica, pari alla modestia, consentiva a chiunque di avere parte al suo sapere – sempre desideroso di imparare egli stesso qualcosa di nuovo.

Come sia giunto a questa personalità d’eccezione, si intravede solo vagamente dagli scarni dati relativi alla sua carriera. C’è da presupporre che Burkert, nato il 2 febbraio del 1931 a Neuendettelsau nella Franconia bavarese come secondo di quattro figli di un pastore protestante, si se­gnalasse presto per la sua tagliente intelligenza e per l’incredibile capa­cità mnemonica: resta infatti impressionante la spontaneità con la quale egli faceva continuamente cadere nel discorso non solo versi greci, ma anche poesie, ballate e Lieder che aveva appresi al tempo della fanciul­lezza o della scuola.

Dopo studi di filologia classica, di storia e di filosofia a Erlangen e a Monaco, Burkert conseguì il dottorato a 24 anni presso l’Università di Erlangen con una tesi che ancora oggi vale leggere, dal titolo Zum altgriechischen Mitleidsbegriff (Sul concetto greco antico di compassione, 1955). Quando an­cora stava preparando la sua abilitazione, che avrebbe conseguita a Erlan­gen nel 1961 con il libro non meno pioneristico Weisheit und Wissenschaft. Studien zu Pythagoras, Philolaos und Platon (Sapienza e scienza. Studi su Pitagora, Filolao e Platone), aveva già conce­pito a grandi linee il suo libro di vastissima portata interdisciplinare Homo necans. Interpretationen altgriechischer Opferriten und Mythen, apparso in prima edizione nel 1972 [la traduzione italiana appare per Bollati Boringhieri nel 1981 col titolo Homo necans. Antropologia del scarificio cruento nella Grecia antica, traduzione dal tedesco di Francesco Bertolini in una collana diretta da Mario Vegetti, di grande importanza per gli studi di antichistica di quegli anni].

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Anello di congiunzione tra il secondo libro e la tesi di dottorato fu, stando a quanto lo stesso Burkert ebbe a dire, la teoria aristotelica della catarsi, che veniva messa in relazione con il pitagorismo. In questo volume, uscito poi in inglese nel 1972 in una versione rivista e ampliata con il titolo Lore and Science in Ancient Pythagoreanism e autorevolissimo ancora oggi, egli rivolse la propria attenzione non solo agli aspetti scientifici, ma anche – sulla scia di Eric R. Dodds, l’autore di I Greci e l’irrazionale , e di Karl Meuli – a quelli irrazionali: Pita­gora appare come una sorta di sciamano, dotato di capacità sovrumane.

L’influenza maggiore su Walter Burkert, tra i suoi maestri, fu senza dubbio quella esercitata da Reinhold Mer­kelbach (1918-2006), che dal 1957 al 1961 insegnò come professore ordinario a Erlan­gen, lavorando al suo libro Roman und Mysterium in der Antike. Eine Un­tersuchung zur Religion (Romanzo e mistero nell’antichità. Un saggio sulla religione).  Merkelbach ha consolidato l’orientamento  di Burkert verso la storia delle religioni. Burkert pensava da principio a una revisione dell’opera ‘classica’  sulle feste attiche (At­tische Feste, 1932) di Ludwig Deubner, ma stimolato dagli studi di Merkelbach, ne risultò innanzitutto una maggiore concentrazione sui rituali di iniziazione e sul rapporto tra racconto e rito.

Sotto l’influenza delle impressioni ricavate dai viaggi in Grecia e in Italia, e seguendo le tracce dell’interpretazione dei sacrifici rituali offerta da Karl Meuli nonché del memorabile libro di Konrad Lorenz Das sogenannte Böse (1963, trad. italiana: L’aggressività. Il cosiddetto male), la prospettiva si spostò allora più marcatamente verso la violenza, il solidarizzare attraverso violenza e sacrificio, laddove il rituale viene nuovamente inteso «come un ponte di collegamento tra comportamento animale e umano», e più in genera­le la religione, al di là della «fede», come «un significativo complesso di rituali nella loro funzione sociale». Da qui scaturì Homo necans, il libro che procurò a Burkert, come ha dichiarato lui stesso, «un biglietto d’ingresso nella storia delle religioni», dedicato a Reinhold Merkelbach.

Walter Burkert, fin dall’inizio del suo percorso scientifico seguì il principio per cui occorreva  «raccogliere quanti più dati possibili». Questo instancabile sforzo di completezza non era tuttavia mai fine a sé stesso, bensì andava di pari passo con un’ampiezza di prospettiva assai ambiziosa.

Accade così che al centro di Homo necans stia sì la tradizione greca antica riguardante riti sacrificali e miti, ma «con l’ambizione di far luce su tappe essenziali del corso dello sviluppo dell’umanità»  – di risolvere dei veri e propri enigmi della storia dell’umanità, secondo la formulazione offerta da Burkert in una intervista del 1988, sforzandosi al contempo «di renderlo un libro davvero solido dal punto di vista filologico: così – penso – nel libro c’è tanto materiale e ci sono tante citazioni raccolte e incastonate in una maniera che non è possibile trovare altrove».

I risultati della ricerca vengono però rego­larmente posti in relazione con il presente e inquadrati all’interno dello sviluppo storico dell’umanità. Burkert interpreta sequenze di miti e riti antichi a partire dalla vita quotidiana delle società paleolitiche di cacciato­ri-raccoglitori, e persino dei primati.

I sacrifici cruenti, fondamentali per il mondo greco-romano, vengono intesi – seguendo appunto le sollecitazioni del filologo ed etnografo Karl Meuli e dell’etologo Konrad Lorenz – come Inszenierungen geregelter Aggression messe in scena di aggressività regola­ta») che, generando un terrore sacro, creano comunità, perché la comunità diventa coesa proprio perché i suoi memebri provano la stessa emozione davanti allo ‘spettacolo’ della aggressione a cui assistono.

«Al centro del sacrificio – scrive Burkert già in un suo saggio del 1966 dedicato alla tragedia greca e al sacrificio rituale – non c’è né l’offerta agli dei, né la comunanza con essi, ma l’uccisione dell’essere vivente e l’uomo in quanto uccisore. Con le parole di Meuli: il sacrificio è “null’altro che una macellazione rituale”. È soltanto necessario ampliare un po’ la definizione, per includervi tutti i tipi di sacrificio cruento: il sacrificio è un’uccisione rituale. Nel rito sacrificale l’uomo provoca e sperimenta la morte.»

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Burkert segue le riper­cussioni delle pratiche cultuali e degli altri antichi modelli di pensiero e di comportamento – tra cui la reciprocità del dare e avere, la ricerca di una colpa originaria e di un colpevole, bandendo il quale si cerca di porre fine a una sciagura incombente (il cosiddetto ‘capro epiatorio’) – talora audacemen­te, fino all’immediata attualità.

La filologia classica, così scriveva Burkert nel­la postfazione alla seconda edizione (1997) di Homo necans, «si estende fino all’antropologia»; ed è proprio questo che ancora oggi ren­de così avvincenti le sue ricerche, ben al di là dei confini della disciplina. Di fatto i suoi lavori, grazie alla straordinaria densità e affidabilità della documen­tazione, resteranno ancora per decenni indispensabili anche per chi non sia disposto a seguirne sotto ogni rispetto le tesi audaci e coraggiose.

Guardando in retrospettiva si fa evidente con quale perspicacia Bur­kert reagisse ai cambiamenti del mondo contemporaneo, e come egli occupasse costantemente con le sue idee la prima linea dell’avanguardia intellettuale.

Attraverso l’attenzione coerentemente rivolta anche ai testi più remoti e alla tradizione figurativa, e grazie al magistrale recupero degli approcci dell’antropologia – dai ritualisti di Cambridge a Freud e Lorenz passando per i citati Karl Meuli e Eric Dodds – egli si poneva come ‘studioso delle civiltà’ (Kulturwissenschaftler) ben prima che le facoltà umanistiche in tut­ta Europa sentissero il bisogno di trovare nuova legittimazione cambian­do così il proprio nome (in italiano, ad esempio: ‘beni culturali’).

Lo stesso vale per il suo interesse per gli scambi culturali tra Grecia e Oriente, così come per la sociobio­logia. E chi rilegga oggi il discorso di ringraziamento per il conferimen­to del Sigmund-Freud-Preis, rimarrà colpito dalla chiarezza con la quale Burkert già nel 2003 analizzava possibilità e rischi insiti in quelle Digital Humanities che, nonostante il crescente consolidamento istituzionale, si trovano ancor oggi nella loro infanzia, per non parlare delle sue ri­flessioni sul «progresso mozzafiato della ricerca sul cervello».

Se si è ingannato in qualcosa, è stato soprattutto nella valutazione espressa nel 2010 secondo la quale l’aggressività e il comportamento conseguente, l’aggressione, era «incongrua rispetto alle tendenze contemporanee» e che essa veniva piuttosto «progressivamente tabuiz­zata». Invece l’aggressione è un comportamento che ha generato nell’ultimo decennio più di una volta solidarietà all’interno di una comunità, nei confini orientali dell’Europa e non solo, e le tesi di Homo necans, il libro gio­vanile di Burkert, sono ridiventate di insospettata attualità.

Pur nella massima apertura nei confronti di approcci di ricerca con­temporanei, Burkert era scettico di fronte alle teorie costruttiviste e strutturaliste postmoderne. Nelle conclusioni al colloquio di Basilea del 1996, egli ne prende le distanze esprimendo la sua impressione «che si tratti non di un inventare (Erfinden), ma di un trovare (Finden)», aggiungendo quasi profeticamente:

 

«Così si persegue la via che si apre, da un punto all’al­tro, trovando testi e contesti in cerchi che si vanno progressivamente ampliando. Non s’intende con ciò che a tale via, al di là della personale fortuna del trovare, corrisponda un oggettivo progresso della scienza o persino del Weltgeist (dello 'spirito del mondo'). Piuttosto, vedo me stesso nella situazione de­scritta da Epitteto, del viandante che passeggia lungo la riva del ma­re raccogliendo belle conchiglie, con interesse e piacere, fin quando il nocchiero chiama per la partenza. La fine e il commiato non si possono scansare. Tuttavia, anche in Epitteto lo sguardo è rivolto verso una molteplicità estranea ed è accompagnato dalla gioia del trovare: non è un guardare nello specchio deformante per vedere sempre e soltanto il nostro stesso volto».

La fine e il commiato si andavano sempre più annunciando negli ul­timi anni. La morte nel 2004 della moglie Maria Bosch, che era sempre stata la sua prima lettrice e con la quale aveva avuto tre figli, fu un duro colpo, dal quale si era ripreso in qualche misura soltanto a fatica e grazie alla sua leggendaria disciplina nel lavoro. A questo si era aggiunto, du­rante il convegno berlinese su Dioniso del 2009, un leggero ictus, i cui effetti si andavano facendo via via sempre più visibili.

Walter Burkert è morto a Uster il giorno undici di marzo del 2015; aveva 84 anni. Lascia un’opera senza eguali, che testimonierà ancora per molti anni della stupenda erudizione dell’autore, della inebriante am­piezza delle sue prospettive e del suo contagioso entusiasmo.

 Le immagini sono tratte da http://www.konstantinospavlidis.com/project/bacchae/ e dallo spettacolo Lingua imperii dal sito degli Anagoor, compagnia a cui accenniamo nel secondo articolo che dedichiamo a Walter Burkert, qui.