Le Trachinie sulla scena contemporanea
Le Trachinie, opera giovanile di Sofocle dalla datazione incerta (tra il 450 e il 428 a.C., con una probabile rappresentazione tra il 438 e il 433 a.C.), mette in scena, nella forma di un dramma coniugale, una situazione quasi archetipica: da un lato la moglie fedele, sola nell’attesa del marito lontano; dall’altro, l’eroe in guerra che, oltre a conquistare terre e onori, si appropria anche di donne, fino a inviarne una, destinata a diventare sua concubina, nella casa coniugale prima ancora del proprio ritorno. È questo gesto a innescare la dinamica tragica.
La tragedia del nostos assume qui un’intensità emotiva profonda: Sofocle dà voce al dolore amoroso attraverso lo sguardo della moglie tradita. La giovane prigioniera divenuta concubina non è semplicemente vittima, ma anche, suo malgrado, causa della catastrofe, coinvolta in un intrico di vendetta attivato da un filtro magico d’amore. La vicenda intreccia elementi fiabeschi e sovrannaturali con una raffinata analisi psicologica, evocando l’antica concezione dell’eros, le derive del patriarcato e la decostruzione del mito eroico, il tutto incorniciato da una rete di allusioni intertestuali che coinvolgono lo spettatore in un vertiginoso altalenarsi di emozioni.
Nonostante la potenza tematica, Le Trachinie sono state messe in scena di rado nella modernità. Nell’imponente opera di Hellmut Flashar, Inszenierung der Antike – purtroppo troppo focalizzata sull’area germanofona – la tragedia viene sorprendentemente trascurata, al punto che nella seconda edizione si arriva all’amara, e tuttavia non del tutto esatta, constatazione: «Le Trachinie e Filottete sono pressoché scomparse, almeno dalle scene di lingua tedesca…».
Fratture nel classico
Ci si interroga sulle ragioni di questa marginalizzazione delle Trachinie rispetto ad altre tragedie sofoclee. Incide forse un’eredità di pregiudizi estetici riconducibili al classicismo? Anche nella storia della filologia, l’opera ha subito una lunga svalutazione critica. Già August Wilhelm Schlegel, nelle sue Lezioni sulla letteratura drammatica (1809), dubitava che potesse essere attribuita a Sofocle, il tragico per eccellenza: la gamma degli epiteti dispregiativi spaziava da “mediocre” a “problematico”, da “oscura” a “cinica”.
Eppure, anche per il pubblico antico, familiare con la tradizione epica e lirica che narrava le gesta di Eracle (Pisino, Pisandro, Paniassi, Creofilo di Samo, Esiodo, Archiloco, Pindaro, Bacchilide), i presupposti mitici della tragedia risultavano sorprendentemente oscuri. A differenza di altre tragedie ambientate in luoghi emblematici come Tebe, Argo o Troia, Le Trachinie si svolgono in spazi periferici: Etolia, Tessaglia, Eubea. L’episodio narrato non riguarda le famose fatiche di Eracle, ma una vicenda marginale del ciclo eroico, che si svolge in una terra d’esilio, durante una sospensione dell’identità eroica.
Queste oscurità sono parte integrante della strategia drammaturgica: Sofocle ci immerge nella psiche di una donna isolata, consumata dal desiderio del ritorno del marito e intrappolata in un sistema patriarcale che legittima le infedeltà maschili come imprese eroiche. Il suo silenzioso accettare le menzogne del coniuge e il suo gesto disperato sono il fulcro di una narrazione in cui la soggettività femminile diviene centrale.
Sofocle, il tragico che sembra incarnare al meglio i precetti aristotelici e le aspettative estetiche moderne, mostra in quest’opera fratture improvvise e spiazzanti, più vicine a Eschilo o al radicalismo euripideo. Un pubblico educato alla collisione hegeliana fra valori opposti potrebbe percepire l’opera come irregolare o difettosa. Eppure, nel contesto postdrammatico contemporaneo, le crepe e le allusioni vaghe – a profezie, predestinazione, misteri divini – rivelano una precisa intenzione psicologica e teatrale.
Una struttura a dittico e la decostruzione dell’eroe
A influire sullo scarso successo della tragedia ha contribuito anche la sua struttura a dittico, propria delle prime opere di Sofocle, e la radicale decostruzione della figura eroica. L’azione si divide nettamente: nella prima parte domina Deianira, la moglie in attesa; nella seconda, l’eroe Eracle, morente e disfatto. I due non dialogano mai direttamente: ciò che a una lettura tradizionale può sembrare un errore drammaturgico, è in realtà una scelta consapevole che rafforza la loro reciproca definizione simbolica. Inoltre, secondo le convenzioni teatrali, è lo stesso attore principale a interpretare prima Deianira e poi Eracle, collegando così i due personaggi nella carne stessa dell’attore.
Eracle appare come figura problematica e vulnerabile, tutt’altro che idealizzata. Ma questa rappresentazione non è un’eccezione: basti pensare all’Aiace, all’Edipo o allo stesso Eracle euripideo. La sua apoteosi, evocata ma non rappresentata, è il contraltare divino del suo dolore fisico e psichico: solo attraverso la sofferenza estrema, l’eroe può divenire dio. Il dono avvelenato che riceve dalla moglie – la veste intrisa del sangue del centauro Nesso – diventa così il tramite della sua divinizzazione.
Eros come veleno
La tragedia si innesca nel momento in cui Deianira comprende che Iole, la giovane prigioniera, non è un semplice bottino di guerra, ma la futura moglie di Eracle. Mossa dal desiderio di riconquistare il marito, ricorre al filtro d’amore donatole dal centauro Nesso mentre stava per morire. Questo gesto, al contempo magico e disperato, si rivela fatale. Il veleno che lo permea proviene dall’Idra, mostro sconfitto da Eracle nelle sue imprese. L’eroe, simbolo dell’ordine patriarcale, muore per la stessa tossicità che ha disseminato. Il suo eros è una malattia, che infetta anche Deianira, e si manifesta nel dolore bruciante della tunica maledetta.
Jan Kott parla di “circolazione dei veleni”: il filtro, pensato come philtron, si rivela pharmakon, oscillante tra rimedio e morte. L’amore si fa piaga, malattia del corpo e dell’anima.
In sintesi, ecco gli elementi hanno contribuito alla ricezione problematica dell’opera:
- il tema di Eros e la rappresentazione, intensa e corporea, dell’intrico amoroso;
- la sensualità, quasi fisiologica, della messa in scena;
- il lamentarsi eccessivo dell’eroe maschile, percepito come femminilizzazione;
- l’atmosfera fiabesca e arcaica;
- la centralità della figura femminile e del suo potere magico.
Anche nella lettura femminista, Deianira è stata criticata non per l’eccesso, ma per la mancanza di emancipazione, perché non rifiuta l’ordine patriarcale. Infine, anche la dimensione religiosa risulta perturbante: gli dèi sono lontani, ambigui, quasi ostili. Afrodite ed Eros agiscono come forze distruttive, Zeus non interviene, e la divinizzazione finale di Eracle avviene fuori scena. La tragedia sembra collocarsi in un universo privo di conforto teologico.
Attualità delle Trachinie
Benché meno rappresentate di Antigone o Edipo re, Le Trachinie appaiono oggi di straordinaria attualità. I temi che risuonano nel presente includono:
- l’analisi della psiche femminile e maschile, la prigionia nei ruoli di genere e la solitudine dell’esilio;
- la performance del desiderio e del bisogno amoroso;
- la concezione dell’eros come malattia e disordine;
- la decostruzione del modello eroico;
- la distorsione del discorso e la questione di cosa sia da considerarsi ‘vero’, questione particolarmente importante in tempi di fake news;
- l’ambivalenza del pharmakon usato da Deianira tra cura e veleno;
- la rappresentazione performativa dell’amore e del dolore come piaga che corrode e consuma il corpo.
Jossi Wieler e il suo team
Le Trachinie sono state messe in scena a Zurigo dal regista ebreo-tedesco Jossi Wieler, noto per l’approccio empatico delle sue regie, insieme al suo team abituale, composto dalla scenografa Muriel Gerstner e dalla costumista Anja Rabes. Fu proprio Gerstner, la cui famiglia conserva anch’essa le tracce di una storia di migrazione ebraico-tedesca verso la Svizzera, a proporre il dramma a Wieler. Dopo una lettura condivisa del testo, la decisione di realizzarne una messinscena fu presa con convinzione. Per i tre artisti, l’attualità sorprendente dell’opera si manifesta in una serie di tematiche oggi centrali: migrazione, fuga ed esilio; traumi che persistono nel tempo; il matrimonio come dimensione velenosa; la mascolinità tossica; le insidie di un ordine patriarcale ineludibile per la donna.
Jossi Wieler è riconosciuto come regista e lettore teatrale di rara sensibilità, capace di valorizzare pienamente gli stimoli provenienti dalle sue collaboratrici. La sua biografia riflette un’esperienza esistenziale attraversata da un doppio radicamento: cresciuto tra il Lago di Costanza e Israele, ha poi scelto di tornare nell’Europa centrale per sviluppare liberamente il proprio linguaggio artistico nel vivace contesto teatrale tedesco e svizzero. Nato a Kreuzlingen nel 1951, Wieler si trasferì nel 1972 in Israele, ma già nel 1980 tornò nel “paese dei carnefici”, attratto dal teatro. Dal 1988 fu attivo come regista al Theater Basel; nel 1993 si trasferì al Deutsches Schauspielhaus di Amburgo, nel 2001 ai Münchner Kammerspiele, fino a diventare, tra il 2011 e il 2018, sovrintendente della Staatsoper di Stoccarda. Da allora lavora come regista freelance per il teatro di prosa e per l’opera. Ha ricevuto importanti riconoscimenti: è stato invitato quattro volte al Berliner Theatertreffen, ha vinto due volte il Deutscher Theaterpreis Der Faust e il premio austriaco Nestroy, e nel 2020 ha ricevuto il Grand Prix Theater svizzero.
La scenografa Muriel Gerstner, nata a Basilea nel 1962, è discendente da una famiglia ebraica di Francoforte sul Meno per parte materna. Il suo percorso artistico si è spesso incrociato con quello di Wieler. Ha collaborato con registi di rilievo come Karin Henkel, Barbara Frey, Sebastian Nübling, Roger Vontobel e Johan Simons, lavorando in importanti istituzioni teatrali come il Theater Basel, la Schaubühne di Berlino, i teatri di Bochum, Amburgo, Monaco, Stoccarda e Zurigo. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti, si ricordano: il Premio federale svizzero per il design (1997 e 2000); la nomina a scenografa emergente dell’anno nel 2002 e a scenografa dell’anno nel 2006, secondo il sondaggio tra critici della rivista Theater heute; il premio 3sat per l’innovazione, ricevuto nel 2007 insieme a Sebastian Nübling e Lars Wittershagen. Nello stesso anno ha rappresentato ufficialmente la Svizzera all’11ª Quadriennale Internazionale di Scenografia e Architettura Teatrale di Praga.
Anja Rabes, nata a Monaco di Baviera nel 1966, lavora dal 1994 come costumista freelance. Ha collaborato regolarmente con Jossi Wieler e Sergio Morabito, nonché con registi di primo piano come Stephan Kimmig, Johan Simons, Christoph Marthaler e Calixto Bieito, firmando costumi per spettacoli di prosa, opera e danza messi in scena a Monaco, Amburgo, Berlino, Oslo, Vienna, Londra, Amsterdam e Stoccarda, oltre che alla Ruhrtriennale e al Festival di Salisburgo. Nel contesto della ricezione contemporanea del teatro antico, ha disegnato i costumi per Alcesti di Euripide, diretta da Wieler nel 2001 ai Münchner Kammerspiele, produzione poi invitata anche al Berliner Theatertreffen.
La concezione scenica e la sua realizzazione: scenografia, ambientazione, recitazione
Le Trachinie hanno debuttato il 14 dicembre 2024 nella Schiffbau-Box del Schauspielhaus di Zurigo. L’allestimento si fonda sull’idea centrale del team di adattare la tragedia di Sofocle trasformandola in una tragedia familiare. Come si realizza questa posizione interpretativa? Le pareti in cemento grezzo della Schiffbau-Box restano visibili, mentre al centro Muriel Gerstner colloca una gigantesca e fantasmagorica cassettiera Biedermeier: una torre alta cinque metri e larga tre, composta da sette cassetti così ampi da permettere alle attrici di entrarvi con facilità.
Muriel Gerstner ha ereditato dalla famiglia materna ebraica un vasto deposito di mobili, e con questo ha più volte traslocato: una memoria familiare a lei cara, ma anche un peso ingombrante. Oltre al suo significato biografico, la cassettiera diventa un’invenzione scenica di rara efficacia, relitto simbolico di una casa dell’esilio. Come suggerisce la stessa Gerstner, l’intimità domestica, secondo Freud, può sconfinare nell’“inquietante”. Nella cassettiera si nasconde ciò che appartiene al passato: documenti, oggetti segreti come la phiale, oppure scritti, come la tavoletta che Eracle lasciò alla partenza quindici mesi prima. In essa, seguendo un oracolo di Dodona, Eracle aveva annotato che, dopo un anno di schiavitù presso Onfale e tre mesi, sarebbe giunto un momento decisivo in cui si sarebbe stabilito il suo ritorno o la sua fine.
Anche le istruzioni di Nesso, insieme al vaso contenente il filtro magico, si sono impresse nella mente di Deianira come uno scritto, che lei custodisce in una memoria strutturata proprio come una cassettiera. Si tratta dunque di un mobile che custodisce i più intimi segreti della storia coniugale, che sono però potenzialmente funesti e comunque inquietanti. Ed è proprio questa ambivalenza a conferire al mobile domestico una forza perturbante: oggetto scenico per eccellenza, la cassettiera riflette — in una sorta di mise en abyme — l’atmosfera dello spazio femminile della camera da letto e il nucleo dell’azione drammatica, al tempo stesso racchiudendo e svelando il filtro magico e gli indumenti dell’eroe come simboli di un amore pericoloso.
La cassettiera è, ancora oggi, il fulcro simbolico di ogni casa tradizionale: vi si conservano, attraverso generazioni e traslochi, gli oggetti più importanti della famiglia. Sul palcoscenico zurighese, questo mobile monumentale e dominante si presta a molteplici soluzioni sceniche: le attrici lo scalano, si muovono atleticamente sui cassetti aperti e al loro interno, utilizzandolo come struttura su cui recitare a diversi livelli, al di sopra del piano del palco.
Lo spazio scenico della Box, che evoca una camera da letto, è rivestito da un tappeto blu su cui Deianira, di tanto in tanto, si stende o si allunga [immagine 1556]. Il blu è noto per simboleggiare fedeltà, armonia, fiducia e onestà. Allo stesso tempo, l’interno della scena viene rovesciato verso l’esterno: nel suo slittamento fantasmagorico, nell’angolo posteriore sinistro compare un container navale di dimensioni ridotte. E il colore del tappeto richiama anche il mare sul/vicino al porto. All’inizio dello spettacolo, nello spazio del Schiffbau (la parola tedesca significa ‘cantiere navale’) risuona significativamente una sirena navale. Quando il pubblico entra nella sala già illuminata, tutti e otto i personaggi sono già presenti.
Deianira, vestita con un elegante abito in stile anni Trenta e Quaranta, si oppone con determinazione al “mostro” cassettiera. Indossa pantaloni bianchi larghi e un top di lana bianco a maniche corte, e sembra voler spingere quel mobile, a lei caro, nel suo nuovo rifugio: è come se fosse un’esiliata giunta con le ultime forze in un porto — che si tratti di un paese mediterraneo o sudamericano — assistita dalla nutrice, che si trova all’altro capo del mobile [immagine 1546].
In assenza di un attore maschile per i ruoli del messaggero e del vecchio, questi vengono interpretati dalla nutrice, impersonata da Judith Hoffman e vestita con un lungo cappotto nero. A parte Eracle — che compare in fondo alla scena, accanto alla parete, minuscolo rispetto alla cassettiera, nudo, in pose atletiche e statuarie — e il suo araldo Licas (interpretato da Matthias Neukirch), che si presenta in uniforme militare verde oliva e stivali con passo deciso, tutti gli altri personaggi sono interpretati da donne e già presenti in scena.
Anche Iole (interpretata da June Ellys Mach), in abito lilla, è già in scena: silenziosa, visibilmente maltrattata, con il trucco che cola, in lacrime, i capelli corti. Tutti i personaggi, ad eccezione del figlio Illo, sono dunque femminili. Illo si trova inizialmente sdraiato con noncuranza sopra il container. Il suo abbigliamento rompe con il design atemporale anni Trenta e Quaranta, proiettandosi nella contemporaneità: indossa sneakers, pantaloni da ginnastica neri con strisce rosse, una camicia beige sotto una giacca sportiva marrone e un berretto bianco e rosso. Tuttavia, anche questo personaggio maschile è interpretato da una donna. Questa scelta, insieme alla maggiore centralità della nutrice, conferisce all’allestimento una marcata coerenza femminile, e al figlio — sospeso tra infanzia e maturità — una sfumatura di genere non binaria. Si ha quasi l’impressione che si voglia includere nella messinscena anche la dimensione queer di un uomo trans, come ulteriore sottotesto.
Illo è interpretato con notevole intensità da Katja Bürkle, che, sotto la maschera dell’indifferenza adolescenziale, lascia emergere emozioni profonde: accompagna il racconto dell’attacco velenoso al padre con una voce lamentosa, intensa, e un pianto abbondante.
Il trattamento del coro e la lingua della nuova traduzione
Come spesso accade nel teatro moderno e contemporaneo, il coro costituisce un problema drammaturgico. Jossi Wieler compatta il suo dramma familiare distribuendo il coro tra la nutrice e le due figlie, individualizzandole con nomi propri: Macaria e Altea. La prima è ancora una ragazzina piuttosto ingenua, vestita con un abito rosso e, quando ha freddo, con un maglione grigio oversize sopra, calzini bianchi e pantofole da casa. È interpretata da Carla Richardsen. La seconda è una giovane donna già un po’ più grande e meno sensibile, interpretata da Tabita Johannes, che indossa un top grigio con scollo a V, pantaloni grigio scuro e mocassini neri. L’insieme, completato da una pettinatura con effetto spoiler, le conferisce un tocco lievemente maschile — creando così un contrappunto alla fluidità di genere attribuita a Illo.
La rinuncia a un coro vero e proprio priva la messinscena di quell’elemento esterno che irrompe nell’azione per commentarla, accompagnarla liricamente, sottolinearla, cantarla e danzarla. Il vantaggio è un accrescimento della coerenza naturalistica della narrazione, che si avvicina quasi a un dramma familiare ibseniano. Tuttavia, il linguaggio elevato e impegnativo del testo corale si adatta solo in parte alle due giovani interpreti. In Sofocle, il coro è composto da quindici donne di Trachis, che danno anche il titolo al dramma. Il titolo Le Donne di Trachis, dunque, risulta in realtà quasi fuorviante: sarebbe più appropriato Deianira e la sua famiglia [immagine sotto].
Le sole figure femminili, a parte le due figlie, sono la nutrice e Deianira, interpretata dalla straordinaria Patrycia Ziółkowska, capace di dominare ogni sfumatura e intonazione linguistica, e di recitare con notevole forza espressiva. È la vera stella dell’ensemble. Senza di lei, il testo — non facile da recitare, ma fedelissimo al greco — della nuova traduzione di Kurt Steinmann non prenderebbe vita. Steinmann, insignito nel 2019 del premio per la traduzione Johann-Heinrich-Voß per le sue numerose traduzioni di testi antichi, ha lavorato secondo criteri di rigorosa aderenza all’originale.
Il coro femminile, in Sofocle, assume molteplici funzioni e tonalità: può rivolgersi direttamente al pubblico e agire come coro civico, cantando e danzando in onore di Dioniso nel teatro di Atene. Nella regia di Wieler, invece, si perde questo dinamismo: l’alternanza tra parti recitate, che determinano lo sviluppo dell’azione, e inserti musicali e danzati, che la dilatano e approfondiscono, scompare, rendendo la rappresentazione in parte statica.
Dal punto di vista psicologico, l’artificio registico che distribuisce il coro tra le figure principali crea anche un problema di credibilità: nel momento cruciale in cui Deianira inizia a nutrire dubbi sul proprio dono, chiede consiglio ai figli — e in particolare alla figlia maggiore e più razionale, Altea — se debba compiere o meno l’atto. Ma quanto più efficace e incisivo sarebbe se a consigliare Deianira fossero donne mature, relativamente autonome, provenienti dalla nuova comunità in cui vive, e che in questo caso finirebbero per darle un cattivo consiglio.
Nelle tragedie antiche, i cori rappresentano spesso gruppi marginali. Un ateniese avrebbe trovato insolito che a consigliare Deianira non fossero fidate compagne della sua terra d’origine o della casa paterna, bensì donne con le quali ella ha stretto solo legami deboli o da esiliata. In questa configurazione, si è solidali, ma si mantiene anche la distanza necessaria per formulare osservazioni critiche. Si crea inoltre una tensione significativa tra la figura panellenica e maschile di Eracle e quella locale, femminile e periferica della comunità di Trachis. Da questo contrasto emergono spazi di senso che si possono definire, in senso lato, politici e di genere.
Nella messinscena zurighese, oltre a una limitata plausibilità scenica delle due attrici nel ruolo delle figlie, manca anche la capacità vocale necessaria per restituire con convinzione — e integrare armonicamente nella recitazione complessiva — le parti liriche, di per sé già molto esigenti. Kurt Steinmann ha tradotto Sofocle seguendo da vicino il ritmo dell’originale greco, secondo il principio della “traduzione documentaria” teorizzata da Wolfgang Schadewaldt, in opposizione alla “traduzione traspositiva”, orientata a forme poetiche elevate della lingua tedesca. Proprio nelle parti corali, le incongruenze della recitazione risultano particolarmente evidenti. Alla difficoltà di rendere credibile una lingua così elaborata si aggiunge una questione per il pubblico: perché mai i figli dovrebbero esprimersi in un linguaggio tanto elevato e possedere un simile grado di riflessione?
Anche le parti in prosa, in cui Steinmann riproduce il ritmo del trimetro giambico, sono padroneggiate in realtà solo da Patrycia Ziółkowska, che riesce a trasmettere con grande finezza le oscillazioni del tono emotivo di Deianira: dal senso di sconforto alla paura, dalla lucidità razionale alla gelosia trattenuta, dal sarcasmo al desiderio. È lei la stella radiosa di questo spettacolo, senza la quale il testo non sarebbe mai riuscito a raggiungere il suo impatto pieno [immagine sotto].
Genere, patriarcato, psicologia dell’eros
La concezione di questa messinscena risulta pienamente funzionale all’idea della tragedia come tragedia familiare e come dramma del patriarcato. Sofocle offre ai registi un terreno ideale per l’applicazione di teorie sul genere, sulla violenza e sulla psicologia. La divisione in ruoli di genere rigidamente separati, così come viene rappresentata in scena, intercetta le aspettative del pubblico e riflette tanto la società attuale quanto quella ateniese del V secolo a.C. Inoltre, l’allestimento elabora i risultati della ricerca sui traumi connessi alla violenza subita. Le donne, in questo contesto, sono preda di conflitti e persino di guerre su larga scala, conquistate e costrette al matrimonio; sono soggetti impauriti e passivi. Subiscono violenza sessuale e abusi. Comprensibilmente, tali esperienze traumatiche segnano profondamente le loro vite. All’interno del matrimonio, interiorizzano l’ordine patriarcale: desiderano l’uomo, la cui assenza è sistematica, e lo idealizzano. Vivono l’infedeltà come minaccia al proprio status privilegiato e come perdita d’onore. L’unica via d’uscita che resta loro è tentare, per gelosia, di legare a sé il marito.
Dal punto di vista psicologico, la messinscena associa Freud e Lacan, relazione che si riflette anche nella scenografia. Abbiamo già accennato al legame con la teoria freudiana del perturbante (Unheimlich): il familiare (Heimliche), che determina il comportamento di Deianira, è al contempo ‘ciò che è domestico’ — la dimensione del Biedermeier — e ‘ciò che è segreto’, e finisce con il coincidere con il perturbante. Tutto ciò che custodisce un segreto e viene poi alla luce è, secondo Freud, perturbante. Questo vale perfettamente per il filtro magico che Deianira nasconde nella cassettiera e che finisce per utilizzare in un momento di emergenza. Paura, rimozione, ripetizione di schemi, presagi, profezie, superstizione, attribuzione di poteri soprannaturali: tutti questi elementi rientrano, secondo Freud, nella sfera dell’Unheimlich. In definitiva, tutto ciò che è stato rimosso e riemerge nel trauma è connesso a questo concetto. A livello atmosferico, tutto ciò si intreccia con l’onirico, con il sogno e con il mondo fiabesco, dove ogni elemento obbedisce a una logica inquietante. La cassettiera, abnorme, come in una deformazione onirica, diventa simbolo di tutto ciò.
Allo stesso tempo, il discorso amoroso messo in scena può essere ricondotto a Lacan. Egli non colloca più l’essere-soggetto nell’Io, come Freud, ma nell’Es, e lo concepisce come strutturalmente scisso e mancante. Lacan lega questo stato eccentrico al linguistic turn, in dialogo con Ferdinand de Saussure e Roman Jakobson. Secondo questa prospettiva, l’Io si costituisce sulla base di catene di significanti, attraverso la supplenza dei segni nel gioco tropico di metafora e metonimia. Il soggetto si trova in uno stato di slittamento continuo, un “glissement incessant du signifié sous le signifiant”. Proprio il soggetto amante, in una condizione di sospensione onirica, è dunque assoggettato al linguaggio, e il significato sorge solo nel gioco di rinvii fra segni. Jakobson ha associato il lavoro onirico di condensazione e spostamento alle due assi linguistiche — paradigmatica e sintagmatica — che determinano la finzione linguistica tramite forme metaforiche e metonimiche.
In questa prospettiva, anche il gioco di rimandi tra filtro, Eros e drappo assume una struttura particolare, quasi magica. Il soggetto desiderante è portatore di una mancanza incolmabile e tenta di colmarla attraverso una serie di objets petit a , ossia di oggetti-mancanza che fanno nascere il desiderio. L’oggetto autentico del desiderio — das Ding, secondo Lacan — rimane inaccessibile. L’immaginario, o anche il fantastico, in un’atmosfera segnata dal trauma, funge da schermo protettivo contro il reale inattingibile del trauma stesso. Il desiderio è legato in modo paradossale all’Altro, e può dunque essere colto solo in modo intersoggettivo.
Le Trachinie possono essere lette come una tragedia esemplare sul diverso comportamento, secondo i ruoli di genere, di uomini e donne nei confronti dell’amore e del desiderio. Eracle, in quanto dongiovanni, è il maschio che insegue das Ding, la donna inattingibile in quanto tale, colmando la propria mancanza con continue conquiste di giovani donne belle e simili tra loro, che — secondo la teoria lacaniana — fungono per lui solo da ‘piccoli oggetti a’ e appaiono in fondo come semplici fantasmi. Dopo Megara, Deianira è praticamente identica a Iole. In Lidia, Eracle si pone al servizio erotico di Onfale come suo schiavo, mentre nel frattempo sviluppa un amore per Iole così intenso da violare ogni regola, fino a uccidere il fratello di lei, Ifito, gettandolo dalle mura di Tirinto.
Deianira, invece, è strutturata secondo una logica differente del desiderio erotico — quella del pothos, dell’himeros e dell’eros — che Lacan definisce jouissance. Si muove tra sogni erotici, immaginando forse altri partner, forse Acheloo e persino Nesso, i quali però le appaiono insieme desiderabili e perturbanti. Tuttavia, si abbandona soprattutto a una nostalgia per i momenti felici vissuti con il marito idealizzato all’inizio del matrimonio — momento che essa, così facendo, sottopone a una parziale sovversione, ma al tempo stesso a una conferma della propria struttura simbolica.
A causa di un desiderio sovrabbondante (pothos), le sue percezioni si spostano nel fantasmagorico, reso visibile dalla scenografia deformata: la gigantesca cassettiera di Muriel Gerstner e il piccolo container. Il nostos, il ritorno desiderato del marito, si intreccia con l’ansia per lui e per sé stessa, nel timore che gli sia accaduto qualcosa. L’attesa del nostos si trasforma in nostalgia, in una sofferenza dolorosa per l’assenza. Quando viene a sapere della nuova amante, Deianira ricorre ai mezzi che ha a disposizione: magia e superstizione. In questo modo, cerca di riappropriarsi del marito attraverso una modalità onirica, proiettandosi nostalgicamente nel tempo felice dell’inizio del matrimonio.
L’infedeltà di Eracle, e la delusione che ne consegue, Deianira la rimuove. Lo stesso vale per il sentimento di disgusto e per l’impulso alla vendetta. Agisce in uno stato di inconsapevolezza, ma forse anche con una certa consapevolezza repressa del pericolo e delle sue possibili conseguenze. La vicenda si svolge, per entrambi i coniugi, nella sfera dell’immaginario, che si riflette nella modalità onirica della recitazione e della rappresentazione, mentre la tragedia, in quanto costruzione linguistica, appartiene alla sfera del simbolico.
La nuova traduzione di Kurt Steinmann, filologicamente fedele e linguisticamente raffinata, rafforza, nel fluire del ritmo, l’impressione di onirico e fiabesco, riuscendo a connettere, all’interno del linguaggio teatrale, prossimità e lontananza temporale, Sé e Altro. Il linguaggio delle immagini si colloca così in un campo di forze che oscilla tra Freud e Lacan, tra il perturbante, la rimozione e il trauma da un lato, e il desiderio fallico e il godimento femminile (jouissance) dall’altro.
Descrizione e analisi dell’allestimento zurighese scena per scena
Tutti gli elementi della concezione registica — tra psicologia, rappresentazioni dell’eros, desiderio e mancato incontro con l’amato, messa in discussione dei discorsi rigidi sul genere (soprattutto dal punto di vista della donna abbandonata e che ama eccessivamente), e decostruzione dell’ideale eroico maschile all’interno di un nucleo familiare ristretto — si riflettono anche nei dettagli della recitazione, dall’inizio alla fine.
All’inizio dello spettacolo, una lunga fase silenziosa precede l’azione vera e propria: il pubblico prende posto, e lo sguardo si posa lentamente sulle otto figure già presenti nello spazio scenico. In fondo a destra, Eracle si spoglia dei suoi abiti. Sdraiato, nudo, esegue in slow motion esercizi ginnici con lo scudo. Il corpo muscoloso e allenato, visto da dietro, richiama le sculture greche degli dèi, disposte nei frontoni dei templi, nelle zone angolari più basse, e quindi in posizione distesa. Il pubblico viene così immerso, per così dire, nella prospettiva deformata di Deianira, dominata da un desiderio eccessivo, mentre l’eroe, allo stesso tempo, si riduce alla misura di una miniatura dell’antichità.
In quel momento, Deianira inizia bruscamente il suo intenso monologo iniziale, in cui cita dapprima un antico proverbio secondo cui nessuno può giudicare la propria vita prima della morte; lei, tuttavia, afferma di poter già trarre una conclusione definitiva: la sua vita è stata solo sventura e dolore. Racconta, sconvolta, il trauma della gara nuziale nella sua patria, Pleurone, e delle terribili violenze del dio fluviale Acheloo, capace di mutare forma, da cui sarebbe stata sopraffatta se Eracle non avesse sconfitto il mostro e non l’avesse “conquistata”.
La sua bellezza — che costituisce un paradigma a cui aspira ogni fanciulla aristocratica greca — è stata la causa del suo destino tragico. Deianira, come sposa da conquistare, è stata un oggetto conteso nel combattimento. Non ha potuto neppure assistere allo scontro come spettatrice: era costretta a distogliere lo sguardo, tanto era orribile la violenza.
Anche il successivo matrimonio con Eracle non le ha portato che dolore: un’esistenza segnata dalla paura per il marito, sempre lontano dalla famiglia a causa delle sue imprese eroiche. Ora si tormenta ancora per lui e anela al suo ritorno, lui che è assente da tanto tempo e di cui non giunge alcuna notizia. Il tempo, però, si fa ormai pressante: sta per scadere il termine predetto dall’oracolo.
La nutrice le consiglia almeno di mandare Illo, per ottenere notizie sul destino del padre. Si rivolge quindi al giovane, un po’ goffo, che inizialmente deve essere aiutato a scendere dal container su cui è seduto. Si scopre che, in realtà, sa più di quanto si pensasse: è a conoscenza del fatto che Eracle, dopo il periodo di schiavitù presso Onfale — pena inflitta per l’uccisione di Ifito, già legato a Iole — sta conducendo una guerra a Ecalia. All’inizio sembra quasi che Illo sia complice del padre, proteggendone le imprese. Ma, quando viene informato dalla madre dell’imminente scadenza dell’oracolo, parte sconvolto alla ricerca di Eracle, non prima che Deianira l’abbia abbracciato teneramente. [immagine sotto]
La parodo (vv. 94–140), che approfondisce il desiderio di Deianira, è pronunciata – dopo le strofe – dalla nutrice, Altea e Macaria.
Nel primo episodio (vv. 141–496), Deianira propone un’analisi inquietante del destino delle donne greche, costrette a passare da una giovinezza felice al matrimonio, e poi a una vita dominata dalla paura, all’interno di un ordine patriarcale. Viene richiamata nuovamente la scadenza profetica imminente.
A questo punto, è la nutrice – e non il messaggero, che nel testo originale funge da araldo di Lico – a riferire di aver sentito al mercato, proprio da Lico, che Eracle è vivo e si sta avvicinando a casa.
In luogo del canto di gioia estatica del coro nel testo di Sofocle (vv. 205–224) – un inno agli dèi che culmina in un grido rivolto a Dioniso, il dio del teatro, destinato ad accentuare per contrasto la futura catastrofe – in scena, nella “Box”, vediamo soltanto la bambina Macaria, che dà libero sfogo alla sua tensione con esclamazioni fra spavento e gioia, con piccole grida.
Subito dopo entra Lico, in uniforme militare, portando con sé Iole. Per giustificare l’arrivo della ragazza e coprire le avventure erotiche del suo padrone, Lico fornisce una versione distorta e attenuata dei fatti, coerente con l’immagine eroica di Eracle: sostiene che la spedizione contro Ecalia fu motivata dalla volontà di vendetta per l’offesa subita da parte di Eurito nella gara di tiro con l’arco, e per le sofferenze seguite all’uccisione di Ifito, figlio di Eurito. Ora, prima del ritorno del vincitore, egli porta nella casa alcune fanciulle come prigioniere di guerra.
Deianira, sensibile, prova subito compassione, in particolare per Iole, sulla quale chiede informazioni, senza però ottenere risposte precise. Nell’azione scenica, Iole – come in seguito Lico, e poi Deianira – scompare all’interno del container, segnando la sua entrata simbolica nella casa.
Dopo che Lico si è ritirato per essere accolto come ospite, la nutrice – ancora una volta al posto del messaggero – si rivolge alla padrona e le rivela che il racconto di Lico è falso. L’aveva infatti sentito vantarsi al mercato: Eracle avrebbe distrutto Ecalia per amore di Iole, poiché il padre non voleva concedergliela.
Altea, invece della corifea, commenta sarcasticamente (vv. 383–384):
Perisca, più di tutti gli altri malvagi,
chi nell’ombra trama inganni di lui stesso indegni. (traduzione di M.P. Pattoni)
Sempre Altea, in luogo della corifea, consiglia alla madre di interrogare Lico, ma l’interrogatorio deve essere condotto dalla nutrice (di nuovo in sostituzione del messaggero), perché Deianira appare troppo fragile per affrontarlo da sola. Solo quando Lico continua a tergiversare, Deianira interviene, lo smaschera e lo accusa di menzogna. Soprattutto, gli chiarisce di essere abbastanza intelligente da non opporsi ad Eros: si perderebbe comunque. Suo marito è sempre stato infedele, e lei non ha mai rimproverato nessuna donna per questo.
Tanto meno intende farlo ora con Iole, per la quale prova grande compassione. Deianira si riconosce nella straniera, poiché anche la sua bellezza è stata causa della propria rovina (v. 465).
Lico, rassicurato dalla razionalità fredda della padrona, ammette di aver mentito (vv. 472–475): Ebbene, mia signora, poiché so che tu, creatura mortare, hai sentimenti umani e sei comprensiva, ti rivelerò tutta la verità, senza nasconderti nulla. Sì, è come ha detto questa donna. (trad. Pattoni)
Lico sottolinea in particolare di aver mentito solo per risparmiarle dolore. Ora chiede a Deianira di accogliere Iole con gentilezza, poiché Eracle, nonostante le sue vittorie, è completamente preda della passione.
Deianira assicura a Lico di non voler peggiorare la situazione, ingaggiando una battaglia inutile contro gli dèi – in particolare contro Eros e Afrodite. Infine, preannuncia già il dono compensativo che Lico dovrà recapitare a Eracle (vv. 494–496): E poiché ai doni si risponde con doni adeguati, anche tu ne porterai uno con te. Perché non puoi andartene a mani vuote, dopo esser giunto con un così grande seguito.
È quasi paradossale vedere, al posto del coro che nel primo stasimo (vv. 497–530) recita liricamente il mito del combattimento nuziale tra Acheloo ed Eracle, la giovane Macaria raccontare con foga la lotta furiosa. Da dove dovrebbe trarre questa conoscenza? Non ne ha esperienza diretta, a meno che la madre non le abbia raccontato la storia più volte, dalla propria prospettiva. Inoltre, all’attrice Carla Richardsen manca l’intonazione necessaria per trasmettere al pubblico la dimensione epico-corale del racconto.
Durante questo flashback narrativo, Deianira si cambia d’abito: toglie i pantaloni bianchi e il top, e indossa un lungo abito beige chiaro. Si vuole evidentemente segnare così il passaggio da un atteggiamento più autodeterminato, quasi emancipato, a una più netta identificazione con il ruolo femminile, sia sociale sia sessuale.
In sostituzione del canto corale assente, viene proposta una scena intensa: dopo aver definito lucidamente la propria posizione – che, nei confronti della giovane Iole, non può che essere di sconfitta – Deianira racconta ai figli l’episodio traumatico del tentato stupro da parte di Nesso e le sue conseguenze fatali. Lo fa in forma mimetica, inscenando teatralmente l’evento con gesti violenti, coinvolgendo anche le figlie nella performance. Subito dopo, come già detto, chiede consiglio ai figli inesperti – tutti collocati nella terza cassetta dal basso – e si fa confermare da loro il proposito di tentare ciò che non è ancora stato provato.
Lico esce ora dal container e Deianira gli consegna la veste intrisa del filtro magico destinata al marito, con la tipica ironia tragica: vuole infatti “presentarlo agli dèi come sacrificante, nuovo nel nuovo indumento” (vv. 612–613, dal testo greco: καὶ φανεῖν θεοῖς / θυτῆρα καινῷ καινὸν ἐν πεπλώματι). È una sorta di epifania teatrale che prelude alla futura apoteosi di Eracle. La scena del sacrificio con il nuovo indumento è insolita e straordinaria, perché è lo stesso sacrificante a essere consumato dal fuoco. La veste trattata aderisce alla pelle, e il veleno scioglie il corpo di Eracle nel calore.
La consegna del dono è accompagnata dal ricordo preciso, da parte di Deianira, delle istruzioni di Nesso: la veste non deve essere esposta alla luce. Questo dettaglio, consapevolmente o no, lo aveva omesso nel racconto mimetico ai figli. Al segno visibile, che conferma l’origine del dono, aggiunge un bacio. Del proprio ardente desiderio (pothos) non vuole ancora parlare, finché non saprà se è ricambiato (vv. 631–632).
Si ode un suono misterioso che introduce il secondo stasimo (vv. 633–662) – l’unico momento musicale – mentre Altea parla con tono distaccato del suono melodioso e “non contrario” (vv. 640–642) che accompagna il ritorno dell’eroe. La figlia racconta come la madre si sia consumata per dodici mesi. Ora, l’eroe dovrebbe giungere rapidamente, “colmo di desiderio (πανίμερος), / infiammato dal filtro d’amore / secondo il comando del centauro” (vv. 660–662).
Nel testo greco originale, l’ironia tragica di Sofocle è ancora più esplicita[1]. Il linguaggio dell’amore designa comunemente l’innamoramento come uno “sciogliersi” – ma qui la metafora si concretizza nel senso fisico dello sfaldamento corporeo.
Subito dopo appare Deianira, colma d’angoscia. Sta in alto, nel quinto cassetto della cassettiera a partire dal basso, e racconta la straordinaria decomposizione chimica del fiocco di lana di pecora, alla luce del giorno, con cui aveva applicato il preparato sul mantello [Immagine sotto].
La posizione elevata simboleggia la visione d’insieme, acquisita però troppo tardi. Sottolinea ancora una volta di aver custodito le istruzioni del centauro come una tavoletta scritta. Perché allora le ha dimenticate proprio nel momento decisivo? Era travolta dal desiderio amoroso e dalla gelosia, al punto da rimuoverle? Oppure è stata una reazione inconscia, un gesto di vendetta nei confronti del marito? Ora riconosce, troppo tardi, che Nesso non le voleva bene, e l’ha usata come strumento della sua vendetta.
Teme il peggio. E ancora una volta, la Macaria, del tutto immatura, cerca di rassicurare la madre con una saggezza precoce, affettata quanto poco credibile, sostenendo che, in caso di errore senza dolo, si dovrebbe giudicare con maggiore indulgenza. Ma le parole non hanno alcun effetto su Deianira, e ormai la tragedia segue il suo corso. Illo ritorna, completamente sconvolto, maledice la madre e racconta la fine orrenda dell’eroe durante il sacrificio votivo al Capo Kenaion. Il ragazzo piange a dirotto – chi siede in prima fila deve fare attenzione a non bagnarsi – e descrive in modo drammatico e agitato ciò che è accaduto sulla punta dell’Eubea durante il rito, degenerato in un sacrificio perverso [Immagine sotto].
Lei ascolta piuttosto con calma, tenta di rassicurarlo, e lo stringe anche al petto in modo materno [Immagine sotto].
Quando infine il figlio la condanna, Deianira si ritira silenziosamente nel container, senza dire una parola.
Intanto, sullo sfondo, Eracle ha cominciato a maneggiare un panno bagnato e a prepararlo. Lo infila sul corpo nudo fino a coprirsi anche il capo. Nel frattempo, si svolge il terzo stasimo (vv. 821–862), che evoca le profezie sulla fine dell’eroe, anticipa la morte di Deianira e interpreta il terribile esito come opera crudele di Afrodite, che resta muta e indifferente, proprio come Deianira durante la gara nuziale. Anche questo testo, come i precedenti canti, è distribuito fra i tre figli – Illo, Macaria e Altea – con un effetto che ancora una volta risulta poco verosimile.
L’uscita silenziosa di Deianira, come sempre in Sofocle, non promette nulla di buono. E infatti arriva la conferma. La nutrice racconta che la padrona si è tolta la vita, significativamente, sul letto nuziale. Prima si è slacciata il vestito e si è colpita al fianco scoperto. Illo deve riconoscere che la sua condanna ha contribuito alla decisione del suicidio. Si getta su di lei, la abbraccia e la bacia.
Il quarto stasimo (vv. 947–970), in cui il coro esprime il desiderio di allontanarsi da quell’orribile accadimento, è ancora una volta distribuito tra i figli – questa volta con una certa plausibilità.
Nella lunga scena finale (vv. 971–1278), Illo trascina il padre su un telo di plastica scuro, che alla fine funge da sacco per cadaveri [Immagine 2019], al centro dello spazio scenico. Il ruolo del Vecchio è, come già detto, affidato nuovamente alla nutrice, che invita alla calma, affinché l’eroe non si risvegli e il male non si riaccenda. Sotto il panno bagnato, reso trasparente, Eracle appare un po’ come il Cristo velato della celebre scultura di Giuseppe Sanmartino a Napoli (1753). L’insieme del corpo nudo del sofferente, coperto da un velo sottilissimo, drappeggiato in modo magnifico, sotto cui si intravvedono volto e corpo martoriati, prende qui vita [Immagine sotto].
La nutrice fa notare a Illo che il padre è ancora vivo: solleva leggermente il busto ed emette i primi gemiti, in una grande scena da Ecce Homo. Sebastian Rudolph lotta contro il velo, che durante la respirazione gli si insinua profondamente nella bocca, impedendogli di parlare. L’esplosione vocale è un’esternalizzazione performativa del dolore di un uomo amareggiato. Il panno aderisce al corpo, lo brucia e lo corrode, più di quanto già temevamo dalla descrizione di Deianira sull’effetto del filtro. È un agon estremo, un combattimento di Eracle contro un dolore, una fatica, una sofferenza infiniti — i ponoi che deve attraversare. Il dolore corporeo si manifesta come malattia (nósos).
L’amore, che nella concezione greca non è mai felicità romantica, ma è definito come nósos, ricade qui su colui che l’ha generato. In modo geniale, il suo amore tossico si rivela veleno. Nella circolazione delle sostanze, il mezzo dell’incantamento amoroso si rivela la vera sostanza dell’amore. L’uomo tossico Eracle, che grazie al suo eroismo tossico ha sconfitto il mostruoso, utilizza un veleno ancora più potente – quello dell’Idra – per combattere altri mostri, come eroe civilizzatore. Nessos, colpito dalla freccia avvelenata di Eracle, offre a Deianira il veleno della propria ferita, affinché ella possa esercitare un potere amoroso sul marito. Infettata dal veleno dell’ordine amoroso patriarcale – anche Deianira è stata colpita dalla freccia di Eros, dell’amore e della gelosia – non riesce più a liberarsene, e lo restituisce come dono sotto forma di tessuto femminile.
Come indumento intimo, da portare a diretto contatto con la pelle, la tunica penetra nella carne, la corrode, la consuma. Il suo amore, come quello di lui, era letteralmente infetto. La metafora si fa ancora una volta concreta, visibile, percepibile come malattia crudele sul corpo, espressa teatralmente attraverso voce e movimento.
Allo stesso tempo, quest’uomo ormai tossico in senso letterale impone al figlio, tanto fragile, nuove prove inaccettabili. In una perversione dei concetti, chiede a Illo di farsi per lui medico: per Eracle, la guarigione e la liberazione dalla malattia infettiva che lo consuma coincidono con l’essere bruciato vivo dal figlio o, in alternativa, con l’essere decapitato. Entrambe le soluzioni non sono che estensioni del suo delirio eroico: una sorta di ricetta omeopatica fondata sulla logica del veleno. Il veleno agisce già sul suo corpo come un fuoco divorante; la combustione vera e propria servirebbe solo ad accelerare la morte. La decapitazione, d’altra parte, richiama simbolicamente alla mente la fine dell’Idra, con la quale Eracle, a livello simbolico, si è ormai identificato. Così facendo, coinvolge anche il figlio nel ciclo fatale del veleno, rendendolo parricida.
Per l’eroe che ha portato a termine con successo le dodici celebri fatiche, è un’umiliazione indicibile soccombere, dopo tante vittorie contro mostri, a una donna — per di più sua moglie. Nel suo dolore si sente effeminato, ridotto a una condizione “femminile”, poiché, nella sua logica spietata, chi ama diventa sempre donna. In questo quadro degradato e rabbioso, ordina al figlio di consegnargli la madre, che desidera uccidere per vendetta, esattamente come aveva fatto brutalmente con Lico al Capo Kenaion.
Illo, da parte sua, tenta di difendere Deianira, ma ciò suscita l’ira del padre avvelenato, che esige da lui fedeltà assoluta. Alla fine, però, anche Eracle — nonostante la furia cieca — deve riconoscere la verità dei fatti.
Infine, chiede al figlio, sotto giuramento, di preparargli la pira sul monte Eta e, ancor più sorprendentemente, di sposare Iole. Questo è il punto di massima umiliazione e sconcerto. Illo si trova di fronte a una richiesta che rovescia ogni logica: dovrebbe prendere in moglie proprio Iole, la causa di tutto il dolore della famiglia. Ancora una volta, si delinea una dinamica di contagio: l’oggetto dell’amore tossico, la figura che ha scatenato la dissoluzione familiare, dovrebbe ora unirsi in matrimonio con l’unico ancora non infettato — solo perché il padre non tollera che lei possa andare a un altro.
Illo esita, sconcertato, e non può che interpretare tutto questo come il delirio di un uomo impazzito. Ma quando Eracle insiste, appellandosi alla volontà degli dèi, questo offre al giovane, ormai del tutto impotente, un pretesto per obbedire a ordini tanto terribili.
Il testo si chiude, ancora una volta, con la suddivisione dei versi finali tra i figli, mentre l’ultima sentenza, che spetta al coro nel testo originale, è qui affidata alla nutrice (vv. 1275–1278), che si rivolge alle fanciulle del coro:
Non rimanere neppure tu lontana dalla casa, fanciulla, tu che sei stata testimone delle recenti terribili morti e di molte inaudite sciagure. Nulla c’è in questo che Zeus non abbia voluto.
Ma è interessante che non ci si fermi a questo finale, che si presenterebbe come una riflessione rassegnata sull’operato degli dèi lontani e, in particolare, del padre degli dèi, espressa sotto forma di proverbio popolare reiterato. A prendere la parola, invece, è ora Iole, finora muta, cui viene attribuito un epilogo aggiunto:
Già da tempo è noto tra gli uomini il detto,
che non si può sapere nulla della vita di un uomo
finché non sia morto, se fu beata oppure funesta.
Ma io lo so già con certezza, prima ancora
di discendere nell’Ade, che la mia è infelice e grave.
È evidente che questo passo riprende parola per parola il bilancio dell’esistenza femminile formulato da Deianira nei versi iniziali (vv. 1–5). Il cerchio si chiude. Anche Iole, in quanto oggetto di conquista, è stata coinvolta nella spirale dell’amore tossico. Così era accaduto a Deianira, che aveva già compreso lucidamente come la bellezza l’avesse condotta alla rovina (v. 25). Colpita dalla compassione, aveva riconosciuto in Iole lo stesso schema (v. 465). Il modello si ripete a ogni generazione. La struttura ad anello sottolinea ancora una volta il principio della circolazione. In un ordine patriarcale, questo ciclo non può essere spezzato.
La bellezza, parametro fondamentale dell’educazione femminile, si trasforma in veleno nell’ambito del matrimonio eterosessuale e patriarcale. Da qui nasce anche lo sguardo quasi nostalgico di Deianira alla felice epoca della fanciullezza, prima della maturazione sessuale. Ma nella messa in scena zurighese, anche le ragazzine sono già infettate dall’ordine tossico, al punto da essere in grado di commentarlo esse stesse al posto delle donne del coro.
Conclusione
Questo progetto ha funzionato per il pubblico teatrale di oggi proprio perché Le Trachinie sono una tragedia molto diversa dalle altre opere di Sofocle. Già nell’Atene del V sec., il teatro tragico poteva offrire spunti di riflessione su temi che riguardavano l’intera comunità, ma che non trovavano spazio di discussione né nell’Assemblea popolare né in altri luoghi pubblici. Questioni complesse come il sistema patriarcale e il desiderio sessuale non chiedevano, forse, di essere elaborate attraverso la messa in scena di vicende mitologiche che inducevano a pensare su tali argomenti? Se così fosse, questa tragedia possedeva già allora una dimensione politica – in senso ampio – che la rendeva, per i suoi tempi, sorprendentemente audace e innovativa.
Jossi Wieler e il suo team sono riusciti a trasformare Le Trachinie in uno spettacolo tragico di grande impatto, capace di suscitare profonde riflessioni. Un testo spesso considerato minore e trascurato, attribuito a un autore canonico come Sofocle, già oggetto negli ultimi anni di riletture più libere incentrate su temi come la mascolinità, l’eroismo, la guerra, il trauma e la condizione femminile, viene riportato da Wieler sulla scena in forma fedele al testo, capace però di farne emergere l’attualità in molteplici direzioni.
Tutto questo è stato reso possibile grazie alla raffinata e coinvolgente traduzione di Kurt Steinmann – che meriterebbe una pubblicazione – e a un progetto registico e scenografico costruito con coerenza e intelligenza. Nonostante alcune criticità nella resa del coro, trattato come un elemento della dinamica familiare – una scelta che comporta il rischio costante di cadere in un naturalismo ingenuo – l’allestimento raggiunge comunque un notevole livello di coerenza, sia estetica che concettuale.
Sofocle, l’autore tradizionalmente definito “classico”, ci ha lasciato un’opera tutt’altro che rassicurante o scolastica: un testo inquietante, capace di turbare – ed è proprio questo ciò che la tragedia attica dovrebbe fare. Jossi Wieler è riuscito a restituire al teatro contemporaneo un’opera da lungo tempo sottovalutata, rendendola di nuovo rilevante per il dibattito culturale del presente. Non stupirebbe affatto se Le Trachinie venissero presto inserite stabilmente nei programmi teatrali del mondo germanofono – e forse anche su scala internazionale.
Bibliografia sulle Trachinie e sugli aspetti trattati nel post:
-
S. Alagkiozidou, Trachiniae and Its Dramatic Reception: Identities and Ideologies in Transition, Crisis and Transformation, Diss. London 2017. https://pure.royalholloway.ac.uk/en/publications/trachiniae-and-its-dramatic-reception-identities-and-ideologies-i und https://pure.royalholloway.ac.uk/ws/portalfiles/portal/27739613/2017alagkiozidousphd.pdf.pdf
-
S. Alagkiozidou, “Feminism(s) and Humanism in Wertenbaker’s Dianeira,” Didaskalia 16/2, 2020–2021. https://www.didaskalia.net/issues/16/2/
-
C. Barone, “The 43rd Edition of Classical Plays at Syracuse’s Greek Theatre: Sophocles’s Trachiniae and Euripides’s Hercules,” Didaskalia 7/1, 2007. https://www.didaskalia.net/issues/vol7no1/barone.html
-
A. Bierl, “Prädramatik auf der antiken Bühne: Das attische Drama als theatrales Spiel und ästhetischer Diskurs,” in: M. Groß, P. Primavesi (Hrsg.), Lücken sehen ... Beiträge zu Theater, Literatur und Performance, Heidelberg 2010, 69–82
-
A. Bierl, “The Bacchic-Chor(a)ic Chronotope: Dionysus, Chora and Chorality in the Fifth Stasimon of Sophocles’ Antigone,” in: A. Bierl, M. Christopoulos, A. Papachrysostomou (Hrsg.), Time and Space in Ancient Myth, Religion and Culture, Berlin, New York 2017, 99–144
-
A. Bierl, “Griechische Helden und die Gewalt: Ambivalenz, Opfer und Heroenkult,” in: S. Fischer, G. Hankel, W. Knöbel (Hrsg.), Die Gegenwart der Gewalt und die Macht der Aufklärung. FS für Jan Philipp Reemtsma, Springe 2022, II, 11–46
-
C. Blanco, “Heracles’ Itch: An Analysis of the First Case of Male Uterine Displacement in Greek Literature,” CQ 70, 2020, 27–42
-
L. Bowman, “Prophecy and Authority in the Trachiniai,” AJPh 120, 1999, 335–350
-
A. Brelich, Gli eroi greci. Un problema storico-religioso, Roma 1958, 3. Aufl. 2010
-
E. Carawan, “Deianira’s Guilt,” TAPhA 130, 2000, 189–237
-
C. Catenacci, Il tiranno e l’eroe. Storia e mito nella Grecia antica, Bari 2012
-
C. Catenacci, “Eros violento e dolore senza rabbia: la tragedia di Deianira nelle Trachinie di Sofocle,” Dioniso 14, 2024, 85–118
-
M. Davies, Sophocles. Trachiniae, edited with Introduction and Commentary, Oxford 1991
-
P. E. Easterling, “Sophocles, Trachiniae”, BICS 15, 1968, 58–69
-
P. E. Easterling, Sophocles. Trachiniae, Cambridge 1982
-
L. Edmunds, “Oedipus as Tyrant in Sophocles’ Oedipus Tyrannus”, Syllecta Classica 13, 2002, 63–103
-
I. J. F. de Jong, “Sophocles’ Trachiniae, Euripidean Prologues, and Their Audiences”, in: R. Allan, M. Buijs (Hrsg.), The Language of Literature. Linguistic Approaches to Classical Texts, Leiden 2007, 7–28
-
H. Flashar, Inszenierung der Antike. Das griechische Drama auf der Bühne der Neuzeit, München 1991, 2. aktualisierte Aufl. 2009
-
H. Flashar, Sophokles: Dichter im demokratischen Athen, München 2000, 2. Aufl. 2010
-
S. Freud, Die Traumdeutung, Leipzig, Wien 1900
-
S. Freud, “Das Unheimliche”, Imago 5, 1919, 297–324, Nachdruck hrsg. von O. Jahraus, Reclam Stuttgart 2020
-
C. Fuqua, “Heroism, Heracles, and the Trachiniae”, Traditio 36, 1980, 1–81
-
B. Gentili, “L’Edipo Re tra mito e storia”, in: R. Uglione (Hrsg.), Atti delle giornate di studio su Edipo (Torino, 11–13 aprile 1983), Torino 1984, 123–136
-
B. Heiden, Tragic Rhetoric: An Interpretation of Sophocles’ Trachiniae, New York, Frankfurt 1989
-
B. Heiden, “Trachiniae,” in A. Markantonatos (ed.), Brill’s Companion to Sophocles, Leiden, Boston 2012, 129–148
-
P. Holt, “Disease, Desire, and Deianeira: A Note on the Symbolism of the Trachiniae,” Helios 8, 1981, 63–73
-
P. Holt, “The End of the Trachiniai and the Fate of Herakles,” JHS 109, 1989, 69–80
-
R. Jakobson, “Two Aspects of Language and Two Types of Aphasic Disturbances,” in: Roman Jakobson. Selected Writings II. Word and Language, The Hague and Paris 1971, 239–259
-
C. Jauslin, “Muriel Gerstner,” in: A. Kotte (ed.), Theaterlexikon der Schweiz, I, Zürich 2005, 699–700
-
R. C. Jebb, Sophocles. The Plays and the Fragments, vol. V: The Trachiniae, Cambridge 1892 (Introduction by B. Goward, General Editor P. E. Easterling, London 2004)
-
J. C. Kamerbeek, The Plays of Sophocles, vol. II: The Trachiniae, Leiden 1970
-
J. Kitzbichler, K. Lubitz, N. Mindt, “Dokumentarische und transponierende Übersetzung,” in: Theorie der Übersetzung antiker Literatur in Deutschland seit 1800, Berlin, New York 2009, 273–298
-
M. R. Kitzinger, “The Divided Worlds of Sophocles’ Women of Trachis,” in: K. Ormand (ed.), Companion to Sophocles, Malden, MA, Oxford 2012, 111–125
-
J. Kott, Gott-Essen. Interpretationen griechischer Tragödien, München, Zürich 1975
-
H. Kurzenberger (ed.), Jossi Wieler – Theater, Berlin 2011
-
J. Lacan, “The Freudian Thing, or the Meaning of the Return to Freud in Psychoanalysis” (1956), in: Lacan 2006, 334–363 (1966, 401–436)
-
J. Lacan, “The Instance of the Letter in the Unconscious, or Reason Since Freud” (1957), in: Lacan 2006, 412–441 (1966, 493–528)
-
J. Lacan, “Guiding Remarks for a Convention on Female Sexuality” (1962), in: Lacan 2006, 610–620 (1966, 725–736)
-
J. Lacan, Écrits, Paris 1966
-
J. Lacan, The Ethics of Psychoanalysis. The Seminar of Jacques Lacan, ed. J.-A. Miller, Book VII, translated with notes by D. Porter, London 1992 (French original Paris 1986); German: Das Seminar, Buch VII (1959–1960). Die Ethik der Psychoanalyse, translated by N. Haas, 1st ed. Weinheim 1996, 2nd ed. Vienna 2016
-
J. Lacan, Écrits. The First Complete Edition in English, translated by B. Fink, New York, London 2006
-
J. Latacz, Einführung in die griechische Tragödie, Göttingen 1993, 3rd ed. Göttingen 2003
-
E. Lefèvre, Die Unfähigkeit, sich zu erkennen. Sophokles’ Tragödien, Leiden et al. 2001
-
K. Mattison, “Sophocles’ Trachiniae: Lessons in Love,” Greece & Rome 62, 2015, 12–24
-
C. Meier, Die politische Kunst der griechischen Tragödie, München 1988
-
S. Mills, “The Women of Trachis,” in: R. Lauriola, K. N. Demetriou (eds.), Brill’s Companion to the Reception of Sophocles, Leiden, Boston 2017, 512–557
-
G. Nagy, The Ancient Greek Hero in 24 Hours, Cambridge, MA, London 2013
-
K. Ormand, Exchange and the Maiden: Marriage in Sophoclean Tragedy, Austin 1999
-
L. Papadimitropoulos, “Heracles as Tragic Hero,” CW 101, 2008, 131–138
-
M. Parca, “Of Nature and Eros: Deianeira in Sophocles’ Trachiniae,” ICS 17, 1992, 175–192
-
-
J. Pòrtulas, “La sposa e la concubina: a proposito della figura di Iole nelle Trachinie”, in: J.-V. Banyuls, F. De Martino, C. Morenilla (eds.), Teatro y Sociedad en la Antigüedad Clásica: Redefinición del rol de la mujer por el escenario de la guerra, Bari 2010, 265–284
-
A. Rodighiero, Sofocle. La morte di Eracle (Trachinie), Venezia 2004
-
M. Ryzman, “Heracles’ Destructive Impulses: A Transgression of Natural Laws (Sophocles’ Trachiniae)”, RBPh 71, 1993, 69–79
-
A. W. Schlegel, Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur (1809), in: Kritische Schriften und Briefe, ed. E. Lohner, V, Stuttgart et al. 1966
-
F. Schlegel, Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, ed. E. Behler (in collaboration with J.-J. Anstett and H. Eichner), I, Paderborn et al. 1979
-
E. R. Schwinge, Die Stellung der Trachinierinnen im Werk des Sophokles, Göttingen 1962
-
G. Seferiadi, Gendered Politics in Sophocles’ Trachiniae, London 2022
-
C. Segal, “Sophocles’ Trachiniae. Myth, Poetry, and Heroic Values”, YCS 25, 1977, 99–158
-
C. Segal, “The Oracles of Sophocles’ Trachiniae: Convergence or Confusion?”, HSPh 100, 2000, 151–171
-
J. Söring, Tragödie. Notwendigkeit und Zufall im Spannungsfeld tragischer Prozesse, Stuttgart 1982
-
E. L. Weiberg, “The Writing on the Mind: Deianeira’s Trauma in Sophocles’ Trachiniae”, Phoenix 72, 2018, 19–42
-
E. L. Weiberg, Demanding Witness: Women and the Trauma of Homecoming in Greek Tragedy, Oxford 2024
-
T. Wertenbaker, Plays 2. The Break of Day; After Darwin; Credible Witness; The Ash Girl; Dianeira, London 2002
-
V. Wohl, Intimate Commerce: Exchange, Gender, and Subjectivity in Greek Tragedy, Austin 1998
-
A. Wrigley, “Details of Productions Discussed”, in: E. Hall, F. Macintosh, A. Wrigley (eds.), Dionysus Since 69. Greek Tragedy at the Dawn of the Third Millennium, Oxford 2004, 369–418
-
F. I. Zeitlin, Playing the Other: Gender and Society in Classical Greek Literature, Chicago, London
La traduzione dell'articolo è a cura di Sotera Fornaro. Sullo stesso spettacolo zurighese su 'Visioni del Tragico' vedi qui.
[1] ὅθεν μόλοι πανάμερος (πανίμερος lettura di Mudge, adottata da Steinmann),
τᾶς Πειθοῦς παγχρίστῳ / συγτακεὶς (secondo Blaydes; i codici riportano συγκραθεὶς)
ἐπὶ προφάσει θηρός cioè: “Che venga da lì colmo d’amore, fuso insieme al filtro completamente cosparso di incanto amoroso, sotto l’istigazione della bestia (il centauro)”.